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Assignment 4

Mi perdo. Delicious è delizioso, davvero. Io, però, mi perdo. Mi sono iscritta, ho inserito un paio di siti utili. E adesso son qui col vuoto esistenziale del non saper più cosa inserirci. Onestamente, ho sempre navigato in internet cercando con Google ciò di cui avevo bisogno o salvando tra i preferiti i siti di maggior interesse. “Navigare”, per me, è davvero navigare, ovvero accendere il pc alla ricerca di qualcosa di nuovo, senza una meta fissa se non i soliti quattro siti che visito quotidianamente. Cercherò, promesso, di scrollarmi un po’ di dosso questa pigrizia. Mi viene in mente che forse Delicious potrebbe essermi utile per quanto riguarda il “magico mondo dello streaming”. Controllando nel sito al tag “streaming” ho scoperto qualche interessante link a tv con programmazione straniera o telefilm, e penso che usufruirò di questo aspetto.

Per il resto, bhe, ecco, diciamo che io e Delicious ci stiamo ancora studiando. Vi informerò qualora nascesse un grande ammòre.

E’ bello riemergere dallo studio ed accorgersi che, si, c’è tutto un mondo intorno. che gira ogni giorno. Ragionando sconnessamente, questo mondo, le nuove tecnologie, le usa. Apro “Coltivare le connessioni”. La prima cosa che, onestamente, mi chiedo, è “perchè”. Provo un’antipatia viscerale, a volte, per coloro che sentono il bisogno di comunicare col mondo aggiornandolo di ogni movimento, ogni evento, ogni occasione a cui parteciperanno. Si esiste perchè si condivide la serata on line. Si esiste perchè si informa il proprio pubblico on line che ci stiamo recando alla stazione,all’università, alla mensa, al lavoro. E questo, alla fine, è forse un meccanismo di umana comunicazione a cui nessuno può sottrarsi. Controllo la mia “bacheca”, lo faccio anche io in qualche modo, lo faccio automaticamente. Tollero poco le connessioni online e lo comunico online. Gestisco la mia pagina facebook. Contatto amici tramite il pc, li informo dei miei movimenti. Alla fine,forse, è un male endemico. Eppure, però, a volte si degenera.

Come quando,dopo un servizio in ambulanza al soccorso di un operaio a cui il tubo di un’impalcatura ha reciso la femorale, si rientra in sede e, invece che vedere il cordoglio per la morte di un uomo, si vedono i dipendenti dell’associazione felici che i giornalisti durante il servizio li abbiano fotografati e abbiano messo la foto online.

Quando accadono queste cose, e vi giuro, accadono, non si può che rimanere disgustati. E chiedersi, continuare a chiedersi incessantemente, quale sia il senso del coltivare le connessioni, perchè sia così fondamentale ribadire costantemente la propria esistenza online per affermare la propria esistenza quotidiana.

Ciò che non si mostra, non esiste.Cerco in questo corso il senso di questa affermazione, il significato intrinseco della necessità di far parte di una “rete in una società priva di soluzioni di continuità”. Si, Internet è democratico. Dà accesso a chiunque. Internet è divulgativo. Troviamo in rete ogni sorta di informazione. Internet consente la connessione. Internet può arginare i danni della scolarizzazione.

Ma, mi chiedo: e il descrivere,il vivere, il sentire?

Cosa riserviamo a noi, al nostro vissuto, alla nostra intimità,se la nostra esistenza passa solo ed esclusivamente dal “search and share”?

Mi sarebbe piaciuta, forse, semplicemente, la scuola di Don Milani. E mi piace anche l’idea di stare online per crescere,per apprendere. Ma non vorrei perdere di vista le connessioni umane. Quelle fatte di volti, espressioni, contatto fisico,odori ed impressioni.Non voglio dimenticare “il profumo di pan di spagna e della nebbia delle montagne”.

Umanità, #7

In Italia, un milione di cose non funzionano. Se ne parla, se ne discute. Ma le uniche persone che possono sbatterti in faccia la realtà, in genere, sono quelle che le ingiustizie le vivono sulla pelle, e te le raccontano con disperazione e con forza allo stesso momento.

Giovedì notte, 01.30 circa. Usciamo in ambulanza senza medico a bordo, ci spediscono in una zona per nulla ben frequentata. L’umore, onestamente, non è dei migliori, nessuno di noi ha voglia di far fronte a scenari post rissa o ad ubriachi molesti da scarrozzare a dormire al caldo. In realtà, quello che ci aspetta è molto diverso. Accostando sul ciglio della strada, c’è una donna di circa un metro e novanta, ubriaca, spaventata, sotto shock. Ha parte del cranio pressochè sfondata, sangue dall’orecchio, ma lo shock è così forte da non farle avvertire il dolore. La facciamo salire in ambulanza, cerchiamo di tranquillizzarla. Ci racconta di chiamarsi I.,cerco di chiederle qualcosa in più mentre dò un’occhiata alla ferita alla testa e medico i tagli sul corpo di cui è piena. I., a quel punto, comincia a raccontare. Ci vomita addosso una storia di dolore, paura, disperazione, coraggio e fragilità, alternando al pianto una lucidità tremenda. E’ una transessuale, è appena stata picchiata per aver denunciato il suo magnaccia, l’hanno rimandata in strada e un uomo l’ha aspettata nella sua piazzola. Calci, pugni, bottiglie spaccate sulla testa. Questo è quello che rimane di lei quando arriviamo per portarla in pronto soccorso. Ma il suo racconto non si ferma a questo. Ha chiamato le forze dell’ordine, spiega, ha dato loro la targa dell’uomo che dopo averla picchiata è fuggito via, nessuno è arrivato. Quando la troviamo noi, è da sola al telefono che continua a raccontare i dettagli della sua aggressione. Ma nessuno arriverà, nessuno raccoglie la sua denuncia. E’ consapevole di essere piena di peccati, I. E’ un’eroinomane, è una prostituta, è clandestina, è un transessuale. E’ così che lei definisce se stessa. Ed è quello che è oggi, spiega, perchè sua madre ha il cancro e lei ha dovuto lasciare la sua attività in Brasile per aiutare la famiglia. A cinque anni l’hanno violentata, nessuno ha pagato, oggi I. è qui e tutto quello che chiede non sono le cure. E’ di tornare in Brasile. “Voglio tornare a casa,” spiega, “in Italia c’è la mafia.” ripete più volte. Offende se stessa mentre si descrive, si racconta con una verità così schietta, così ai limiti della cattiveria. Quello che vediamo noi, è solo paura, dolcezza, fragilità.

La lasciamo in Pronto Soccorso, la porteranno di corsa a fare una Tac. La lasciamo a chiederci aiuto per tornare a casa, mentre gli altri la fissano come una reietta. La lasciamo sulla barella, e lei lascia in noi un profondo senso di commozione ed impotenza.

Avrei voluto poterla aiutare. Penso a lei oggi, dopo qualche giorno, e mi piace immaginarla su un aereo diretto verso casa sua. Credo che la realtà sia ben diversa, però. E credo sia, ancora oggi, troppo piena di disperazione ed indifferenza.

Respiro, #6

Parlando di emergenza,c’è bisogno di sfatare un mito che falsa completamente,purtroppo,la realtà dei fatti. Chi fa volontariato potrà capire cosa sto per scrivere: nel 90% dei casi, infatti,il massaggio cardiaco non è sufficiente. Si arriva sempre troppo tardi, l’arresto cardiaco è fatale. Nel rimanente 8%,c’è speranza di riprendere un battito, ma non la coscienza: troppo gravi i danni causati dalla mancata ossigenazione del cervello.Se nei film vediamo quotidianamente massaggi che non comprimono una cippa, tizi che vanno in arresto e dopo la rianimazione riprendono coscienza, si alzano chiedendo pure un caffè, nella realtà,purtroppo,non è così. Il tempo che trascorre dalla chiamata all’arrivo dell’equipaggio e, purtroppo, l’inesperienza dei familiari,rendono il tutto spesso e volentieri molto vano: dopo 5 minuti, infatti, i danni dell’anossia sono irreversibili, dopo 10 minuti si muore. I parenti,che sarebbero fondamentali per guadagnare tempo ed aumentare le possibilità di ripresa, quasi mai sanno come intervenire.

Ci sono,però,le eccezioni. Quel 2 per cento che rimane. Che, a volte, diventa un piccolo miracolo sanitario e ti tocca il cuore.

Estate 2010. Sono in turno su un’ambulanza con infermiere a bordo, nell’associazione dove lavora il mio ragazzo. Inganno il tempo divorando maledetti alphatest, è sabato pomeriggio e la città è deserta,si spera di poter studiare. Il telefono squilla, infatti,solo intorno alle 7. K2R,codice rosso in casa, uomo di 70 anni non cosciente,non respira. Francesco, l’infermiere, si mette in comunicazione con la centrale, dalla quale arriva la conferma:sembra si tratti realmente di un arresto cardiaco,non di un falso allarme. Arrivati sul posto,un uomo è steso a terra e non respira, il figlio spiega che si è accasciato con la faccia nella minestra mentre stavano cenando, lo hanno preso e messo sul pavimento in un corridoio molto angusto. Tutto intorno,un silenzio surreale. La moglie osserva incredula, Francesco inizia a dirigere i lavori. Attacchiamo il monitor, ci sono segni di un battito irregolare che si evolve ben presto in asistolia. Probabilmente, la causa primaria è un arresto respiratorio. Mentre uno dei volontari comincia il massaggio, io preparo per Francesco il kit intubazione e inizio a ventilare ossigeno. Ancora niente battito, si defibrilla, accesso venoso ed adrenalina. Ancora niente battito. Chiediamo un appoggio,l’automedica è in arrivo da Torregalli. Chiunque di noi,sta già pensando a come spiegare quanto accaduto a quella moglie attonita in piedi nel corridoio così stretto. Adrenalina, ancora. “Via io,via voi, via tutti”, un’altra scarica. Continuo a ventilare, Francesco si prepara ad intubare il paziente. Il barattolino di Luan rotola sotto una cassapanca, sembra l’unica cosa diversa di uno scenario purtroppo già scritto. Un attimo dopo, invece. “Aspetta”. Aspetta?Cosa?mi chiedo. Anche quell’ “aspetta”, come il barattolino di Luan, esce dai miei schemi. “Fermatevi,aspettate un attimo”, chiede Francesco. Immobile, con il palloncino per ventilare ossigeno, sento tirare un respiro affannato. Guardo il monitor. C’è un battito.

Guardo l’uomo, steso a terra,guardo la sua gola muoversi nell’atto di respirare. Prima debolmente,poi con sempre più forza. Guardo quell’uomo che tutti avevano dato per morto socchiudere gli occhi, respirare ancora. 20.35.50. Sale la frequenza cardiaca. Nel corridoio, si affaccia una divisa gialla. E’ arrivato il medico. “L’abbiamo ripreso” spiega Francesco.

Portare quell’uomo vivo in ospedale è una conquista che non dimentico. Sentirlo respirare,vedere il suo cuore battere. Ancora. Niente film,non si è alzato di scatto in piedi, non ha chiesto un caffè. Non so dire se, onestamente, abbia recuperato a pieno la funzionalità cerebrale. Ma il suo cuore è tornato a battere. Lo sforzo è stato utile.

Non lo dimenticherò mai.

Elisa

Assignment 1

Piccola parentesi didattica. Essendo un blog “ordinato”, tocca ogni tanto eseguire gli assegnamenti “ordinati” dal prof. In questo caso, si tratta di cercare feed e spiegarvi come sono riuscita nell’impresa. Ho scelto di illustrare il procedimento con cui ho seguito il sito di Repubblica e “Notti di guardia”, un blog che amo molto.  Per iscriversi a un feed, il modo più semplice è cercarlo su Google Reader,cliccando su Aggiungi iscrizione e inserendo la query di ricerca. Se non riesci a trovare il feed che cerchi. Oppure, si copia l’indirizzo del sito web e lo si incolla nella stessa casella. In questo caso, invece, ho scelto deliberatamente due siti e li ho aggiunti prima all’elenco dei miei feed, e poi all’elenco dei feed rss di questo blog, in questo modo: ho cercato prima nella pagina di Repubblica e poi nella pagina di “Notti di Guardia” l’icona arancione che segnala la possibilità di iscriversi al feed del sito. Nel caso di “Repubblica” il link lo si trova in basso a destra nella pagina e dà la possibilità di scegliere quale particolare argomento (cronaca,sanità,etc) seguire. Per “Notti di Guardia” l’icona arancione si trova subito in alto a destra. Se l’icona arancione non è disponibile, si possono cercare i link nella pagina utilizzando i seguenti termini (su Firefox, apri il menu Modifica->Trova in questa pagina).

Cliccando sull’icona si ottiene l’iscrizione al feed. Per importare i feed nel blog, per quanto riguarda wordpress, si va nell’area Widget dal pannello di controllo, si sceglie il riquadro intitolato “RSS”. Aprendolo, si può incollare in quello spazio il link del sito che si desidera seguire, come ho fatto con qualche blog,con “Notti di Guardia” e con “Repubblica” e fare in modo che compaia il riferimento nel proprio blog.

Coraggio #5

Oggi,è arrivata la conferma che tutti,in ambito di Protezione Civile, sapevano e temevano. I volontari italiani non partiranno. Niente aiuti, dall’Italia, per il Giappone. Troppo alto il rischio nucleare. Tutto quello che sento di dire, oggi, mentre un ministro ottuso  e servile come la Prestigiacomo riesce solo a ribadire come espressione italiana le sue assurde posizioni personali pro nucleare, tutto quello che sento di dire è coraggio. Coraggio al popolo giapponese, che con ordine e speranza sta affrontando,da solo, l’apocalisse. Coraggio. Siete un grande popolo.

Solidale. #4

Ho davvero poca voglia di scrivere. Smaltisco stamattina il sonno arretrato della settimana e le incazzature dettate da certe piccole e quotidiane inciviltà che mi mandano in bestia. Mi sveglio pensando al fatto che,a volte, le persone sanno essere davvero molto molto “piccole”. Eppure,io sono convinta che gli esseri umani in genere abbiano delle potenzialità grandi, e che nei momenti di frattura sociale,difficoltà ed incomprensione venga fuori una solidarietà che spesso si perde. Pensando a tutto questo, mi viene in mente qualche immagine.

Giugno 2009. Sera, clima fresco di piena estate, seduti a chiacchierare su una panchina fuori dall’associazione. Si parla di gelato,vacanze estive,cose futili. Poi squilla il telefono.

“Allarme protezione civile, un treno è esploso a Viareggio, i mezzi delle loro associazioni sono distrutti, bisogna correre in aiuto da tutta la Toscana. Ci sono almeno 10 morti.”

E’ ancora piena estate, è ancora sera, ma l’aria intorno ha cambiato odore. L’improvviso evolversi della strage coglie di sorpresa tutti, lascia attoniti e sgomenti a cercare di aiutare e recuperare ciò che ancora si può salvare. Via Ponchielli è una colonna di fumo,urla e disperazione, all’alba si piange sui marciapiedi in ricordo di chi, in un istante, è stato spazzato via. Si raffreddano le case con gli idranti, si organizzano i trasporti verso il Centro Ustioni di Pisa. Alcuni di loro hanno ustioni al 70% del corpo. Alessandro è ustionato, racconta di essersi ferito aiutando un ragazzo con una gamba bloccata che temeva di bruciare vivo. Nel crollo di una delle abitazioni di via Ponchielli si è salvato un bambino: i cani dell’Unità Cinofila di Forte dei Marmi ne hanno avvertito la presenza, era ancora nel suo letto quando è stato portato via dai volontari. M., 50 anni, al momento dello scoppio passava in motorino da via Ponchielli. Di lui, non rimane che cenere.

E’ un dolore così grande che le persone non lo possono raccontare. Però, lo affrontano. I giorni seguenti sono un brulicare di persone che arrivano, portano aiuti, se ne vanno, allestiscono alloggi di fortuna, consolano, vegliano in ospedale. Si vegliano sconosciuti, si aiutano vicini di casa con i quali magari prima si era in lite per il giardino, si portano aiuti a chi non si conosce. Si è solidali. Si ricorda chi è morto per salvare i propri cari,come Hamza, 17 anni, che dopo l’esplosione ha salvato la sorellina di 2 perdendo poi la vita. Queste, sono le persone che voglio ricordare.

Mi piace pensare che anche nel quotidiano diventeremo, un giorno, questo tipo di umanità. Mi piace pensare che si possa essere solidali anche per le cose futili, mi piace pensare che anche la competizione possa tirare fuori il meglio di noi, e non soltanto il peggio. Altrimenti, più che futuri medici,avvocati,politici o letterati, saremo solo e sempre piccole persone. 

Elisa

In realtà,a pensarci bene,le nottate in ambulanza non sono sempre sirene spiegate e maxi emergenze. Molto più spesso si tratta dei cosiddetti servizi taxi, categorizzabili in:

1.Signore anziano e ipocondriaco desideroso di rassicurazioni in merito al suo sfavillante stato di salute

2. Adulto viziato e pretenzioso con macchina e famiglia al seguito che,però,paga le tasse, e nei cinque minuti da casa sua all’ospedale pretende dunque di essere scortato da ambulanze con medico a bordo

3. Ipocondriaci,puri, e semplici, che sentono di “essere sul punto di morire”. Ovviamente,se ne accorgono sempre nel cuore della notte.

Io, a sta gente,farei pagare molto più che il ticket, soprattutto quando le notti cominciano così.

Tre e mezza, più o meno. Intero equipaggio buttato giù dal letto,corsa in codice giallo in casa di un tizio che ci vede entrare,”sto morendo”, urla, e, si agita, e poi, per dirla finemente, ci rutta dritto in faccia. Una volta spettinata la dottoressa in turno con noi stanotte, il tizio esordisce con “sa,ho un dolore alla bocca dello stomaco,son sicuro sia un infarto. Ho passeggiato per il giardino e provato a fare rutti e più che uscivano più che stavo meglio, ma son sicuro che sto avendo un infarto.” Io, nel frattempo, ho talmente sonno che toppo completamente la posizione degli elettrodi e gli faccio praticamente un Ecg all’ascella. Poi mi correggo e individuo anche il cuore.”No, signore, nè la sua ascella nè il suo cuore stanno avendo un infarto”. Comunque, è una doppia sicurezza. “Ma io voglio andare in ospedale a far gli enzimi”. Informatissimi,sti ipocondriaci.Maledetta wikipedia con la terminologia medica, pensi in questi casi. “Guardi, dovrà aspettare molto. Ogni valore è nella norma,non c’è ragione di andare in ospedale”. “Eh vabbè,farò presente che oggi sono stato alla comunione di mia nipote e ho mangiato molto,son sicuro mi si sia bloccato tutto sullo stomaco, guardi, si fidi. Glielo dico io, mi sento proprio il classico infarto”.

Preso e scaricato lo spettinatore di dottori con problemi di aerofagia, si son fatte le cinque. Si gradirebbe andare a letto. Ma invece,no!

Cinque e dieci, grazie 118, tempismo perfetto. Signora 87enne che ha deciso, si, anche lei,che è giunto il momento di rendere l’anima al creatore. E desidera comunicarlo direttamente ad un medico, aspettandoci nel suo salotto in vestaglia di seta viola sorseggiando il thè. “Dottoressa,salve.Mi sento che muoio, le volevo dire come organizzare il funerale”. Osservo con terrore la faccia del medico diventare fucsia,con qualche lieve sfumatura di verdolino. Non so come accada di preciso perchè nel frattempo il sonno è diventato nausea e tremolio alle gambe,ma dato che TUTTI i parametri possibili della signora sono perfetti e che non solo non sta morendo ma sta anche visibilmente meglio di tutti noi messi insieme, mi ritrovo insieme ad autista e dottoressa ormai scorata a sorseggiare il tè con la signora ragionando di cosa ci sia dopo la morte.E’ l’unico modo per convincerla a tornarsene a lettino,almeno lei.

Nel frattempo son le sei passate, si spera di aver già dato per stanotte.

Figuriamoci.

Sei e mezza, codice verde, “mi dispiace ragazzi, abbiamo tutte le altre ambulanze fuori,dovete uscire voi”. Dottoressa ormai blu e moccolante, equipaggio ai limiti della sopportazione umana. Sotto casa, stavolta, il tizio ci attende direttamente con la 24ore,vestito di tutto punto. Il medico neanche si affaccia più. Apro il portellone laterale dell’ambulanza, “Si?” chiedo.

“Oh salve buonasera ci avete messo un po’ meno male siete arrivati c’è il medico vero con voi” risponde spingendomi,salendo in ambulanza e sistemandosi sul sedile comodo comodo. “No è che siccome sto per avere una colica di reni ho bisogno che mi portiate al Pronto Soccorso, poi se poteste anche dirmi quanto c’è da aspettare ve ne sarei grato visto che mia moglie poverina mi segue con la macchina ma non può certo aspettarmi tutta la mattina che abbiamo gente a pranzo.”

A quel punto, hai due opzioni: o ti schianti a ridere, o sfasci tutto dalla rabbia. Oppure,ancora, prendi spunto dal signore delle tre e spettini il paziente con un fine e diplomatico rutto.

Oppure, ancora,sarà giunto anche il momento di far pagare perlomeno il ticket, a sta gente,oppure no?

Elisa

Auguri, B. #2

Ieri era la festa della donna, e io pur arrivando in ritardo voglio dedicare quella giornata ad una donna decisamente singolare. La sua storia si incrocia con la mia in una notte di estate del 2010.

Due e quaranta circa di notte, il turno in “medicalizzata” è trascorso sereno fino a quel momento. E lo squillo del telefono rende ancora più complicato alzarsi di scatto,scendere le scale di corsa, stropicciarsi gli occhi e sveglia,via, di corsa in ambulanza. Dal computer la centrale segnala un K4R, un codice rosso in un’abitazione per un problema di natura respiratoria. Il dottore,questa notte,è un uomo in gamba. Uno di quelli a cui oggi devo molto,uno di quelli che sa armonizzare un equipaggio con un solo sguardo. E io sono serena, perchè so che ci guiderà al meglio anche stavolta. Arrivati all’abitazione,saliamo di corsa le scale. E davanti a noi c’è una signora composta e sofferente che ci sorride e ci invita a entrare. Si chiama B., ha 94 anni. Casa sua profuma di bucato e di biscotti, vive sola dalla morte del marito,non ha figli nè nipoti,ma due grandi occhi azzurri lucidissimi e profondi che mi seguono mentre le attacco i red dot per effettuare un Ecg. Il problema è un’edema polmonare acuto ed insorgente, dobbiamo correre in ospedale. A 94 anni,si muore per molto meno.

Credevo che in quel momento gli occhi di B. avessero osservato confusamente soltanto cinque persone gialle e blu affannarsi attorno alla sua sedia, credevo che avesse soltanto sentito “Furosemide”, “Nitrati”, “endovena”, “prepara un accesso,trattiamo l’epa e corriamo via”,che avesse guardato senza capire il perchè di così tanto affanno intorno a lei.

L’ho creduto, concentrata su altro prima di quel momento, fino a quando non mi ha preso la mano. I suoi occhi così azzurri e così lucidi hanno fissato i miei per qualche istante, per poi sorridermi. “Tesoro”, mi chiede la sua voce limpida, “secondo te sto per morire?”.

Sono rimasta immobile,inebetita, congelata per un istante con le garze in una mano e una mano nodosa nell’altra mano, a fissare quegli occhi che mi fissavano senza sapere cosa rispondere. Poi ho capito che,in realtà, lei aveva compreso.Ogni gesto,ogni movenza che le era accaduta intorno le era sempre stata, in realtà, perfettamente chiara.”Dobbiamo andare in ospedale” le spiego. Lei mi sorride, continua a tenermi la mano. E io,quella mano, la tengo stretta anche mentre la portiamo giù per le scale,anche durante il viaggio verso l’ospedale, fino a poco prima di salutarla. E B. mi racconta, racconta della focaccia fatta in casa ogni giorno da oltre trent’anni, racconta della guerra, racconta delle amiche e dei vicini, racconta del gatto di strada che ogni tanto viene a farle compagnia. Racconta sorridendo.

Ci salutiamo dentro al Pronto Soccorso, “tu non vieni?” mi chiede. “Io qui la devo salutare”, rispondo.

Sono tornata a trovare B. il giorno dopo. E’ una cosa che non faccio mai, che non dovremmo fare. Dovremmo, sempre,limitarci a prestare aiuto nel tempo esiguo della cosiddetta “golden hour”, seguire indicazioni, trasportare, “scaricare” per poi andarcene. E’ una cosa che non ho mai fatto altre volte. Sono tornata a trovare solo B., il giorno dopo, ho chiesto se fosse sopravvissuta all’infermiera che era di guardia. “B?” mi ha risposto, “B. sta meglio di noi due messe insieme,è una roccia”. Il giorno dopo, quella donna di 94 anni che non ha mai smesso di sorridere un istante neanche di fronte all’evidenza della morte, era seduta in un letto col suo pranzo davanti e chiacchierava amabilmente con un infermiere. Ho fatto capolino nella stanza, lei ha agitato la manina, sgranato il suo sorriso. “Oh,buongiorno tesoro!” ha esclamato.

E io, questo otto marzo, lo voglio dedicare a lei. E a tutte le persone che come lei non si danno per vinte, mai, neanche quando il resto del mondo le dà per spacciate, neanche quando l’evidenza della solitudine o della malattia porterebbe chiunque altro quantomeno a spegnersi. A chi, come lei, a 94 anni sorride e sempre,comunque, va avanti. C’è tanto bisogno di gente così al mondo.

Elisa

Dopo le presentazioni formali,generalmente,seguono sempre quelle sostanziali. E per arrivarci un po’ di più,a quella sostanza, ho pensato a come poter rendere questo blog un compito gradevole ma,comunque, interessante.Ragionando,forse basta dedicarlo a quello che nella quotidianità,oggi,mi emoziona di più: un turno in emergenza. Dedicherò,quindi, un po’ di tempo a raccontarvi volta per volta qualche frammento delle mie “notti di guardia”, perchè ognuna di esse ha lasciato,nel corso di questi anni, un ricordo indelebile ed un’emozione.

E voglio cominciare dal momento più significativo.

Io credo esista per tutti quanti un momento preciso in cui si realizza con certezza, definitivamente ciò che si è, e chi si vuole diventare. Per me,il momento è arrivato poco più di un anno fa.

Per salire come volontario in ambulanza si seguono corsi, si fa pratica, si fa tirocinio. Si può decidere poi di lavorare con un medico a bordo o da soli, come responsabili di un defibrillatore automatico, per gestire “emergenze minori”. I cosiddetti codici verdi. Questa è la teoria. La pratica è ben altra.

Novembre 2009, in equipaggio siamo in tre. Io, l’autista, il secondo soccorritore. A questo giro, siamo soli. Niente medico. Nella sede squilla il telefono, a chiamare è la centrale del 118 che ci invia in codice rosso su strada per un incidente. “Non sarà mai un “vero” codice rosso” pensiamo, “non c’è il medico con noi”. Cinque minuti,siamo sul posto. Ed è un codice rosso,di quelli veri, seriamente. Lascio il nostro autista dal primo ferito, che è seduto con vari traumi e sotto shock ma comunque cosciente. Guardo più avanti, c’è una donna stesa a terra,chiamo l’appoggio di un mezzo con medico a bordo. E poi vivo quei minuti come fossi dentro a un film. Ci sono le urla, c’è la coscienza di questa donna che dura pochi attimi per poi perdersi, c’è una emorragia massiva ed un pneumotorace,c’è da attendere l’arrivo del medico potendo usare soltanto le conoscenze e le autorizzazioni del volontario,che mai come in quel momento si rivelano inadeguate. I minuti passano,c’è chi ci aiuta ad immobilizzare la donna, c’è il collega che cerca il necessario in ambulanza, ci sono anche i tizi che fanno foto con il cellulare. Ci sono i giornalisti. Che sono lì,e non danno una mano, e scattano foto e fanno video. E sono giornalista anche io,fino a quell’attimo. Arriva il medico, portiamo la paziente in pronto soccorso ma la prognosi è infausta. E poi c’è la telefonata dalla mia redazione,che ha saputo che ero lì. C’è la caporedattrice che mi chiede se sia morto qualcuno,così potranno riempire la prima pagina.

E poi c’è la dissociazione. E ci sono io immobile da qualche parte in pronto soccorso con una consapevolezza nuova: vivo dalla parte sbagliata della barricata. Con la necessità di dover cambiare percorso di apprendimento,con la convinzione viscerale di voler cambiare barricata, di voler seguire il cuore che mi porta da un’altra parte. Dalla parte di chi può fare e non deve stare a raccontare.A quella persona, a quel momento, devo il mio studio e la mia serietà nell’intraprendere questo nuovo percorso. 

Sono le tre di notte, però, e quel turno continua. Mettiamo a posto l’occorrente in ambulanza, possiamo ripartire,siamo provati ma non molliamo. Alle tre e mezza suona nuovamente il telefono, di nuovo il 118. Una donna sta per partorire, deve essere trasportata in ospedale. Arriviamo a casa della paziente, l’indicazione è per Torregalli. Reparto maternità. Lasciamo lì la giovane donna in attesa che nasca la sua bimba,e rimaniamo qualche minuto lì,davanti ad un vetro. A respirare profumo di buono, di speranza e di vita nuova davanti alle culle della maternità.

E’ un’altalena, è un fiume di emozioni in una sola notte. E’ una notte di ordinaria emergenza in cui accade questo e molto di più. E’ per questoche ho deciso di raccontarvelo,se avrete la pazienza di seguirmi 🙂

Elisa